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DiDott. Marco Amendola

Psicologo, Psicoterapeuta, Psichiatra e Neuropsichiatra: Differenze

Tra quelli che possiamo definire come i due estremi della salute mentale – il benessere mentale e il disturbo psichico possiamo trovare un continuum caratterizzato da inquietudine, malumore, insoddisfazione e negatività ricorrenti che perdura a lungo e silenziosamente prima di sfociare della psicopatologia vera e propria. Si tratta di condizioni che, al principio non destano particolare allarme in quanto non correlate a sintomi specifici e perché non compromettono, apparentemente, il funzionamento psico-sociale della persona

Spesso dall’insorgere di un disturbo psichico alla richiesta di aiuto passa un lasso di tempo entro il quale il problema che affligge la persona influisce percettibilmente nella conduzione della sua vita quotidiana fino ad arrivare all’invalidazione di aree specifiche del vivere. La capacità di risanarsi autonomamente è la spinta vitale più potente che la persona ha in sé per se stessa e verso le relazioni significative della sua vita, ma cosa accade quando questa fallisce?

Nella gran parte dei casi, la presenza di questi malesseri spinge le persone a chiedere l’aiuto di uno specialista. Ma a chi rivolgersi in quella che sembra una giungla di termini che sembrano riferirsi tutti alla stessa cosa? Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza, almeno tra te termini che sono diventati di uso comune e che spesso tendono ad essere confusi tra loro.

La prima distinzione che è necessario fare è tra psicologo1psicoterapeuta2. Il primo può fare diagnosi, valutazioni, interventi di prevenzione in campo sociale. Il secondo, è colui che aiuta la persona si occupa di problemi di origine esistenziale (fobie, lutti, separazioni, , ecc.) o psicopatologie (disturbi d’ansia, attacchi di panico, depressione, ecc.) Non utilizza farmaci, benché possa prevedere la combinazione di psicoterapia e psicofarmacologia.

La psicoterapia può essere definita, quindi, come un sistema di cura fondato sull’impiego di mezzi psichici conseguiti nell’ambito del rapporto di interazione terapeuta-paziente e diretti essenzialmente a ricostituire o rafforzare l’efficienza funzionale della personalità.

Ma cosa significa tutto ciò? Il termine Psicoterapia viene dal greco  (anima) e  (cura): la psicoterapia potrebbe così essere definita come un percorso, che ha lo scopo di migliorare la qualità di qualche aspetto della vita quotidiana o di sostenere la persona nell’affrontare il disagio psicologico.

La differenza tra gli psicoterapeuti sta nella loro formazione in modelli diversi che conducono a terapie con tempi ed esiti estremamente differenti. Per fare qualche esempio3, esistono diversi modelli teorici: quello psicodinamico, quello cognitivo-comportamentale, quello della Gestalt, l’Analisi Transazionale, la terapia Sistemica, ecc4.

Quello che accomuna tutti gli approcci è il rapporto fra terapeuta e paziente: potremmo dire che mentre il secondo guida la terapia, il primo guida il paziente cliente attraverso i processi che costituiscono i passi del percorso, tarando il proprio intervento sulla realtà del paziente.

Vediamo poi le altre figure professionali che si occupano di salute mentale:

Lo Psichiatra è un laureato in Medicina e Chirurgia con specializzazione post-lauream in Psichiatria, quindi è prima di tutto un medico: può prescrivere farmaci generici e/o psicofarmaci con regolare ricetta medica e richiedere e valutare esami clinici (come l’elettroencefalogramma, la TAC, la Risonanza magnetica ecc.). Lo Psichiatra, poi, è abilitato – previa richiesta formale di annotazione in apposito elenco presso il proprio Ordine Provinciale di riferimento – all’esercizio della Psicoterapia, differentemente dagli Psicologi che, come abbiamo visto prima, devono ottenere una specializzazione specifica.

La psichiatria, quindi è quella branca della medicina che si occupa dello studio, della prevenzione, della cura e della riabilitazione dei disturbi mentali. In particolare, rispetto alla psicologia, la psichiatria è maggiormente orientata verso l’identificazione del disturbo mentale come derivante da un funzionamento anomalo a livello fisiologico del sistema nervoso centrale seguendo una prassi od ottica strettamente scientifico-materialista, oltre alla possibilità di intervento di tipo farmacologico.

Il Neuropsichiatra Infantile, infine, è un laureato in Medicina e Chirurgia, con una specializzazione post-lauream in Neuropsichiatria infantile che si occupa dello sviluppo neuropsichico e dei suoi disturbi, neurologici e psichici, nell’età fra zero e diciotto anni.

A partire dagli anni ’70, infatti, lo sviluppo di nuovi approcci in psichiatria, ha dato vita, nel settore infanzia e adolescenza, ad un movimento per l’integrazione nelle scuole di quei soggetti che, prima, erano inseriti invece in classi o istituti differenziali. In particolare, la Legge 104 del 1992 sui diritti delle persone con disabilità ha influenzato l’operatività dei neuropsichiatri infantili, specialmente nei servizi territoriali, in un lavoro strettamente collegato a figure professionali non mediche, come psicologiinfermierilogopedistifisioterapistiassistenti socialieducatori professionali, oltre che insegnanti curricolari e di sostegno.

Bibliografia

Adamo S. M. G. (a cura di) (1990): Un breve viaggio nella propria mente. Consultazioni psicoanalitiche con adolescenti Liguori Ed.

Arieti S. (a cura di) (1985): Manuale di psichiatria, 7a ed., Torino, Bollati Boringhieri, 1985

Dizionario Garzanti della lingua italiana

Valerio P. (1993): Il counselling psicologico per studenti universitati in Fischetti R, Milana F. (a cura di) Lo psicoterapeuta edi i suoi sistemi di riferimento impliciti ed espliciti Quinto di Treviso: Pagus Ed.

1Per esercitare la professione di psicologo è necessaria una laurea in Psicologia, un Tirocinio Formativo della durata di un anno effettuato con la supervisione di un tutor professionista iscritto all’Ordine Nazionale degli Psicologi Italiani e il superamento dell’Esame di Stato che consente l’iscrizione all’Albo degli Psicologi della Regione di appartenenza, obbligatoria per esercitare.

2:Lo psicoterapeuta è un laureato in psicologia o in medicina, con una specializzazione di almeno quattro anni in una Scuola riconosciuta ufficialmente dallo Stato Italiano.

3 Tratteremo in seguito più approfonditamente le differenze tra i diversi modelli di psicoterapia.

4 Per una trattazione più specifica si rimanda all’articolo dedicato ai diversi modelli di riferimento.

DiDott. Marco Amendola

Dipendenza da internet (IAD)

L’Organizzazione Mondiale della Sanità descrive la dipendenza patologica come quella condizione psichica, e talvolta anche fisica, causata dall’interazione tra una persona e una sostanza tossica. A questo si associa il bisogno compulsivo di assumere la sostanza in modo continuativo allo scopo di provarne gli effetti psichici e evitare il malessere derivato dalla sua privazione.
Quelle che oggi vengono definite nuove dipendenze si riferiscono invece a una vasta gamma di comportamenti anomali come il gioco d’azzardo compulsivo, la dipendenza da TV, l’Internet Addiction Disorder, lo shopping compulsivo, le dipendenze dal sesso e alcune devianze del comportamento come l’eccesso di allenamento sportivo.
Da un punto di vista psicoterapeutico, l’utilizzo del temine “nuove dipendenze” ha lo scopo di sottolineare l’importanza di studiare e curare quei nuovi fenomeni che – visto che circa il 40% della popolazione mondiale possiede oggi una connessione internet – sono causa di un aumento esponenziale delle problematiche relazionali e personali che affliggono i nostri pazienti. (De Angelis, 2000).

La dipendenza da internet:  Internet Addiction Disorder (IAD)
Vista la mancanza di una classificazione diagnostica riconosciuta, ad oggi l’IAD può essere solo descritto come un’ampia varietà di comportamenti, ai quali sottostanno problemi nel controllo degli impulsi e difficoltà nel regolare gli stati emotivi dolorosi. Si può parlare di IAD quando la maggior parte del tempo e delle energie vengono spesi nell’utilizzo della rete, tanto da creare menomazioni nelle aree esistenziali dell’individuo (relazionale, scolastica, familiare e affettiva). Le dinamiche dell’IAD1 si possono sviluppare al punto da presentare fenomeni analoghi alle dipendenze da sostanze, con comparsa di tolleranza, craving2 e assuefazione.
Secondo la pioniera di queste ricerche Kimberly Young, che ha fondato il Center for Online Addiction statunitense, sono stati riconosciuti 5 tipi specifici di IAD:
Dipendenza ciber – sessuale: gli individui che ne soffrono sono di solito dediti alla fruizione di materiale pornografico online, o sono coinvolti in chat-room per adulti.
Dipendenza ciber – relazionale: per gli individui che ne sono affetti gli amici online diventano centrali, a scapito di rapporti reali.
Net Gaming: la dipendenza dai giochi in rete comprende una vasta categoria di comportamenti, compreso il gioco d’azzardo patologico, i videogame e lo shopping compulsivo. Caratteristica essenziale di questo disturbo è la partecipazione ricorrente e per lungo tempo a giochi di gruppo che prevedono la competizione e la strutturazione di attività sociali di interazione. In tale condizione, vengono trascurate le occupazioni personali, familiari o professionali
Sovraccarico cognitivo: la ricchezza dei dati disponibili sul Web ha creato un nuovo comportamento compulsivo che riguarda l’utilizzo e l’organizzazione di dati presenti nei database su internet.
Gioco al computer: una particolare forma di gaming che riguarda tutti quei giochi che prevedono l’interazione di più giocatori e non sono giocati in rete.
L’IAD quindi comprende aspetti differenti a seconda del tipo di attività svolta in rete ed è diffusa non solo tra le nuove generazioni, ma in grande misura anche tra adulti ed anziani. Il rischio è quello di affrontare tutte le relazioni interpersonali in modo surreale fino al quasi completo allontanamento dalla vita reale, caratterizzato dal rifiuto delle normali attività ludiche e sociali.
Come per altre dipendenze, anche per l’IAD i soggetti più a rischio sono coloro che hanno bassa autostima, difficoltà sociali, modalità di pensiero ossessiva e comportamenti compulsivi o
tendenti al ritiro sociale questo perché attraverso il veicolo Internet costoro possono non affrontare le proprie problematiche esistenziali. Altri elementi tipici dell’IAD sono la possibilità di vedere Internet come via di fuga da eventi di vita sfavorevoli, oppure la possibilità, attraverso l’anonimato, di auto-attribuirsi specifiche fisiche e caratteriali spesso distanti da quelle reali.
Per quanto riguarda il mantenimento della dipendenza sembrano giocare un ruolo fondamentale il rinforzo positivo che le esperienze in rete possono dare all’individuo come nel caso della pornografia (gratificazione tramite la stimolazione sessuale), dei giochi (gratificazione per il tramite dell’identificazione con un eroe) e delle chat (soddisfazione che deriva dal senso di appartenenza sperimentato dalle persone) (Fata, 2012).

Il trattamento dell’IAD
Il trattamento delle nuove dipendenze viene attualmente realizzato sulla base di caratteristiche clinico-psicopatologiche simili ai disturbi dello spettro ossessivo-compulsivo e del controllo degli impulsi, ai disturbi da uso di sostanze e ai disturbi dell’umore, soprattutto quelli appartenenti allo spettro bipolare (Casha and colleagues, 2012).
La Young (1999) ha individuato alcune strategie di trattamento per analogia con quelle con cui si affrontano le dipendenze da sostanze: ad esempio proponendo al soggetto una strutturazione del tempo trascorso in rete con uno stimolo esterno che favorisce il rispetto della prescrizione, oppure proponendogli di sostituire l’attività online che più lo vede coinvolto con un’altra attività, sempre online, che non lo ha ancora condotto ad una vera e propria dipendenza.
Visto che nella maggioranza dei casi, la dipendenza coinvolge negativamente la famiglia, può essere utile coinvolgere anche quest’ultima nella terapia. In questo caso, la terapia permette alla famiglia di essere co-protagonista del cambiamento e supportare la motivazione del soggetto ad affrontare e risolvere la dipendenza.

Bibliografia
American Psychiatric Association (2014). DSM-5, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali
Casha, H., et al (2012). Internet Addiction: A Brief Summary of Research and Practice. http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3480687/
De Angelis, T. (2000). Is Internet addiction real? http://www.apa.org
Fata, A. (2012). Internet addiction disorder. Una review. http://www.psychiatryonline.it/node/2031
Presidenza del Consiglio dei Ministri. Dipartimento Politiche Antidroga. Progetto IAD-U. Valutazione della prevalenza delle dipendenze comportamentali nell’epoca di internet tra studenti universitari. http://www.governo.it/AmministrazioneTrasparente/BandiContratti/Archivio/accordi_pa/politicheAntidroga/01PROGETTO%20IAD-U.pdf
Young, K. S. (1999). Internet Addiction: Symptoms, Evaluation, And Treatment. http://www.netaddiction.fusionxhost.com/articles/symptoms.pdf

DiDott. Marco Amendola

Il binge eating disorder (Bed): Quando abbuffarsi fa sentire bene

I disturbi dell’alimentazione non derivano da cattive abitudini alimentari o effetti della poca volontà di chi ne soffre. Sono patologie psichiatriche che portano ad assumere comportamenti volti a raggiungere ideali estetici irrealistici.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, consultando i media, i disturbi dell’alimentazione non sono aumentati negli ultimi decenni. Quello che è – per fortuna – aumentato è lo spazio che i mezzi di comunicazione danno all’argomento e della sensibilità su quanto particolari modelli sociali possono avere sui soggetti più fragili.
Accanto alle più note Anoressia e Bulimia, esistono altre forme di disturbo dell’alimentazione. In particolare, vedremo insieme il disturbo da alimentazione incontrollata (Binge Eating Disorder, BED). Il BED è un disturbo del comportamento alimentare che si presenta con episodi di abbuffate simili a quelli della bulimia nervosa, senza però mostrare i comportamenti compensatori tipici di quest’ultima (vomito, abuso di lassativi o diuretici, digiuno successivo). Le periodiche abbuffate possono riguardare sia alimenti dolci che salati, con successive coliche addominali.
Di fronte a una persona in forte sovrappeso, quindi, anche il medico di base può diagnosticare un BED, analizzandone il comportamento alimentare e il livello di accettazione della sua condizione fisica. In genere, il BED interessa uomini adulti e, forse, per questo motivo ha un impatto sociale meno pubblicizzato di altri disturbi dell’alimentazione.

Ma cosa significa abbuffarsi? Vuol dire ingerire compulsivamente, almeno una volta alla settimana per almeno tre mesi, grandi quantità di cibo in tempi relativamente brevi e a prescindere da una reale sensazione di fame. Accanto a questo c’è l’impossibilità di seguire diete ipocaloriche nonostante un sincero desiderio di perdere peso. Come nel caso della bulimia, anche nel BED le abbuffate sono solitarie e associate alla sensazione di perdere il controllo rispetto alla quantità di cibo assunto e terminano soltanto in seguito a una sensazione di pienezza eccessiva e sgradevole.

Ma cosa provano le persone che si abbuffano? Una delle sensazioni ricorrenti delle persone che attuano questo comportamento è che ingerire grosse quantità di cibo riesca a placare, seppure per un periodo estremamente breve, le loro ansie, questo a prescindere dai danni arrecati alla salute.
Le persone affette da BED non hanno una grande stima di sé, vivono la loro condizione con un forte senso di colpa, si sentono goffe e, nonostante questo, sembrano riuscire ad affrontare la propria insoddisfazione solo con l’assunzione di cibo e il conseguente aumento di peso.
Chi è affetto da BED, così, è quasi sempre obeso e soffre psicologicamente per questa condizione1. Il senso di frustrazione e la riduzione dell’autostima che seguono la fase dell’abbuffata sembra derivare dal fatto che le persone affette da BED sembrano ritenere che il proprio valore sia dato dal proprio peso. Sono convinti cioè che le difficoltà relazionali si risolverebbero se il loro peso fosse nella norma. Si instaura così un circolo vizioso in cui la sensazione di esclusione sociale e di isolamento, conferma l’ipotesi di non avere successo sociale a ausa delle proprie caratteristiche ponderali. Questo porta ad un ritiro dalla vita sociale che intensifica il senso di solitudine e conferma all’individuo il suo scarso valore e la mancanza di risorse per uscire da questa situazione di impasse.

Ma da cosa deriva il BED? Come per l’anoressia e la bulimia, l’origine del BED è complessa e in parte legata a una predisposizione genetica, cui si sommano un serie di fattori personali, familiari, sociali e ambientali sfavorevoli. Studi condotti negli ultimi anni hanno evidenziato anche alterazioni specifiche di ormoni e neurotrasmettitori che regolano appetito, sazietà e stimolo all’assunzione di cibo, sia a livello cerebrale che gastroenterico: per questo motivo, il BED mostra un andamento sovrapponibile a quello dei disturbi dell’umore.

Come si affronta il BED? Come tutti i disturbi del comportamento alimentare, il BED necessita di un approccio multidisciplinare che preveda una stretta collaborazione tra psichiatra, internista, dietologo e psicologo. La dieta deve tendere a mantenere un adeguato equilibrio metabolico; la terapia farmacologica – se ritenuta opportuna – si avvale della somministrazione di antidepressivi e ansiolitici, mentre la psicoterapia può aiutare ad affrontare le problematiche relazionali legate alle difficoltà di avere una adeguata percezione del proprio corpo e del proprio Sé.
In particolare, l’intervento terapeutico nei casi di BED agisce su diversi aspetti: dal momento che lo stile nutrizionale patologico della persona che soffre di BED è strettamente connesso ad un malessere psicologico di cui l’abbuffata rappresenta il sintomo, è prioritario che il paziente possa lavorare sulla gestione delle dinamiche sottostanti alla sintomatologia, attraverso un percorso terapeutico che gli permetta di riacquistare la sensazione di scegliere e controllare il proprio stile di vita, potenziando quelle risorse che non riesce a riconoscersi.
La psicoterapia del BED ha, quindi, come obiettivi primari l’interruzione delle abbuffate e la riduzione della psicopatologia specifica e associata a questa patologia (come l’ansia e la depressione) Il trattamento prevede la disamina delle idee disfunzionali, l’identificazione degli stati emotivi che possono innescare le abbuffate e lo sviluppo di modalità più funzionali per fronteggiarli. La terapia può essere anche di durata stabilita2, che si propone di aiutare i pazienti a identificare e risolvere i loro problemi interpersonali, che possono essere causa del comportamento alimentare sbagliato.

BIBLIOGRAFIA
American Psychiatric Association (2013) Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) Raffaello Cortina Editore, Milano 2014
Todisco P, Vinai P.(a cura di) (2008). La fame infinita. Manuale di diagnosi e terapia del disturbo da alimentazione incontrollata. Centro Scientifico Editore, Torino 2008

DiDott. Marco Amendola

Disturbi del desiderio sessuale

La risposta sessuale è caratterizzata da quattro fasi (descritte nel 1960 dal  sessuologo Master e dalla psicologa Johnson):
 desiderio, eccitazione, orgasmo e risoluzione.
 La prima fase è caratterizzata da fantasie sessuali e dal desiderio di praticare attività sessuale.
 Quando queste vengono a mancare o sono insufficienti, si parla di Disturbo del desiderio sessuale ipoattivo.
Per diagnosticare il disturbo devono essere presenti determinate caratteristiche e cioè: notevole disagio nelle relazioni interpersonali, la mancanza di desiderio non deve essere esclusivamente conseguenza degli effetti di una sostanza (ad esempio farmaci) né di una condizione medica generale.
Lo scarso desiderio sessuale può estendersi a tutte le forme di espressione sessuale ma può anche essere circoscritto ad un partner o ad una particolare attività sessuale ( ad esempio rapporto sessuale ma non masturbazione).
Il soggetto che ne è affetto non ha nessuna motivazione a cercare stimoli ma può partecipare ad incontri sessuali quando è il partner a sentirne il bisogno o quando egli stesso vuole compensare un bisogno di intimità.
Le cause del disturbo possono essere tante : paura di una gravidanza, preoccupazione (soprattutto negli uomini) per l’invecchiamento e quindi evitamento delle situazioni per paura di fallire, paura di lasciarsi andare soprattutto in personalità che vogliono avere tutto sotto controllo, non riuscire a superare la perdita o la separazione del partner precedente e quindi non essere in grado di iniziare una nuova relazione.
A volte il calo del desiderio è causato da conflitti interni alla coppia, da mancanza di attrazione verso il partner o dall’incapacità di vedere la persona amata anche come oggetto sessuale cioè dal non fondere sentimenti d’amore con il desiderio sessuale.
All’interno della coppia il calo della libido è quasi sempre un segnale d’allarme, è importante comunicare al proprio partner le proprie preferenze senza timore di essere giudicati perchè spesso è proprio l’incomunicabilità a causare problemi in questo campo.
Per arrivare ad una diagnosi è importante per il clinico incontrare anche il partner perchè uno scarso desiderio sessuale lamentato dall’uno potrebbe riflettere un eccessivo bisogno sessuale da parte dell’altro.
É anche possibile che entrambi siano compresi in un ambito normale ma agli opposti del continuum.
Nel caso di una coppia quindi è importante rivolgersi a un esperto che possa aiutare nella comunicazione e inserire il disturbo in un contesto, per definirne le cause.
Anche il contesto culturale, lo stile di vita, possono influenzare il desiderio sessuale.
Avere delle convinzioni religiose molto rigide ad esempio può inibire nei rapporti e anche nelle fantasie.
Le fantasie sessuali possono rendere il rapporto più piacevole ma in alcune culture e religioni sono viste come perversioni o tradimenti verso il partner.
Un’ omosessualità latente, la paura e la vergogna di ammettere di essere attratti da una persona dello stesso sesso, può causare un calo del desiderio.
Il disturbo inoltre può essere permanente o acquisito, nel primo caso il disturbo è presente sin dall’inizio dell’attività sessuale, nel secondo caso si sviluppa in seguito ad un periodo di normalità.
La forma permanente di disturbo del desiderio ha un esordio di solito durante la pubertà, altre volte si sviluppa in seguito.
Tra i disturbi del desiderio sessuale vi è anche il disturbo da avversione sessuale.
Si tratta di una persistente e ricorrente avversione ed evitamento di tutti o quasi tutti i contatti sessuali genitali con un partner sessuale.
Questo provoca notevole disagio nei rapporti interpersonali.
Tra le cause vi può essere l’aver ricevuto un’educazione rigida riguardo la sfera sessuale per cui il sesso è considerato qualcosa di sporco o pericoloso oppure l’avere  avuto esperienze traumatiche passate.
Tutto ciò porta ad un’avversione verso il sesso che è stato vissuto come un obbligo e una costrizione.
Anche in questo caso è importante rivolgersi a professionisti in grado di aiutare a superare le difficoltà risalendo alle cause che le hanno create.
Spesso ci si vergogna di dover parlare di esperienze intime e delicate ma tenendole dentro si rischia di danneggiare ulteriormente la propria vita sessuale e sentimentale mettendo in opera meccanismi di evitamento che allontanano il partner.

Bibliografia

  • Diagnosticand Statistical Manual of Mental Disorders, quarta edizione (DSM IV), American Psychiatric Association.
  • Sesso. Energia,fantasia, vitalità, gioco. Strocchi, Castellani, Jodice. Ed. Mediterranee.
  • La coppia. Nuove realtà, nuovi valori, nuovi problemi. Cociglio, Fontana, Massobrio, Rovera. Ed. Franco Angeli.
  • Manuale illustrato di terapia sessuale, Kaplan. Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano.
DiDott. Marco Amendola

Il disturbo ossessivo compulsivo

La presenza di una irragionevole ma transitoria ossessione (cioè un’idea fissa o una spinta a fare qualcosa), o di atti ripetitivi (soprattutto mentali o scaramantici) non sono rari nella vita di chiunque: quanti di noi, ad esempio, prima di uscire o di addormentarsi, controllano ripetutamente il gas? E’ cosa ben diversa parlare di disturbo ossessivo-compulsivo, in quanto, in questo caso le ossessioni e le compulsioni sono così pervasive da causare disagio marcato, sofferenza ed interferiscono con il normale funzionamento sociale e lavorativo della persona: non a caso infatti, il termine “ossessivo-compulsivo” deriva da obsidere (assediare, occupare) e compellere (costringere, obbligare, forzare).
Il disturbo ossessivo- compulsivo è un disturbo d’ansia caratterizzato da preoccupazioni eccessive, persistenti e spiacevoli, involontarie ma ineliminabili (ossessioni), e da comportamenti ripetitivi, rituali rigidi (compulsioni), perlopiù tesi a ridurre l’angoscia generata dai pensieri stessi: la parola ossessione fa quindi riferimento ai pensieri, mentre compulsione agli atti.
I pensieri ossessivi presentano tre caratteristiche fondamentali: un sentimento soggettivo di obbligatorietà, una tendenza a resistervi e il mantenimento della consapevolezza. La persona affetta infatti, sa che si tratta del suo proprio pensiero, che essi quindi hanno origine interna, e che il fatto di continuare a pensare (e quindi poi a fare) dipende dalla sua volontà; può quindi decidere di non pensare (e non fare) in quella particolare occasione, ma poi lo fa, e la volontà è vinta, soprattutto perché è tormentato dal dubbio di cosa potrebbe succedere se interrompesse quella routine, e tutto ciò non fa che aumentare l’autocritica e la sofferenza.
Le ossessioni più comuni sono:
-di sporco e contaminazione (paura o disgusto nei confronti delle secrezioni corporee, preoccupazioni per la sporcizia e le infezioni, per i contaminati ambientali, quali le radiazioni);
-dubitative (timore di non aver svolto in modo corretto atti estremamente comuni nella quotidianità)
-di aggressività, verbale o fisica (auto o etero diretta);
-interrogative;
-filosofico – esistenziali;
-numeriche: calcoli,date;
-sessuali (pensieri, immagini o impulsi proibiti o perversi o violenti);
-religiosi (preoccupazioni di bestemmia, di sacrilegio);
-ossessioni di raccolta e di conservazione di oggetti;
-ricordi coatti (canzoni, melodie);
-somatiche (preoccupazione di malattia, eccessiva preoccupazione per parti del proprio corpo o del proprio aspetto).
Le compulsioni generano ulteriore ansia sia per il bisogno di svolgere l’azione sia di resistervi, al fine di mantenere una qualche forma di accettabilità sociale. In effetti, nonostante ampie aree della vita del paziente siano implicate nei rituali compulsivi, è spesso osservabile come gli ossessivi lascino fuori altre aree dalla loro ossessività. Può capitare, ad esempio, che un paziente che arriva ad escoriarsi le mani per i continui lavaggi e che dedica gran parte del suo tempo a perseguire la pulizia, vada a lavoro con una macchina sporca e malandata e lavori in un ufficio sporco!
Tutto questo perché la consapevolezza dell’assurdità e della stranezza di tale situazione determina nei pazienti un’ansia gravissima, ma allo stesso tempo li induce a nascondere questa loro condizione a causa della vergogna che provano; è spesso questa vergogna a far sì che dall’insorgere del disturbo alla ricerca di un aiuto, passino in media 15 anni, a differenza di quanto avviene con gli altri disturbi d’ansia.
Le compulsioni più frequenti sono:
-rituali di pulizia personali e/o domestici (i cosiddetti lavatori-pulitori);
-rituali di controllo (ad esempio, del gas, della luce, dell’acqua);
-rituali di simmetria e di ordine ( ad esempio, determinati oggetti devono essere perfettamente allineati, simmetrici e ordinati secondo una logica precisa);
-rituali di iterazione (ad esempio, rilettura, riscrittura, ripetizioni di atti magici);
-rituali di raccolta e di conservazione.
Tra le manifestazioni più ricorrenti, e quindi tra le associazioni più frequenti, vi sono:
-ossessioni di contaminazione e rituali di pulizia, nel qual caso, l’eccessiva paura dello sporco può essere “placata” da lavaggi ripetuti;
-ossessioni dubitative e rituali di controllo, nel qual caso dubbi sul non aver compiuto una determinata azione costringono a controlli infiniti.
Le ossessioni e le compulsioni possono essere semplici ( ad esempio, una sequenza di poche parole può continuare a girare nella testa e si cerca di resistervi), o complesse e ritualizzate ( ad esempio, cercare di chiudere la portiera dell’auto dopo essere scesi e trovarlo molto difficile perché si teme che l’atto di chiudere possa scatenare pensieri osceni, sgradevoli e ripetitivi. Per questo motivo mettere in atto delle strategie per mettere l’auto in certi posti, controllare tutte le portiere prima di partire, controllarle di nuovo dopo essersi allontanati e aver girato la chiave guardando in una particolare direzione).
Tutto questo compromette il normale svolgimento della vita della persona.
I criteri per poter diagnosticare un disturbo ossessivo- compulsivo, sono i seguenti:
(A)
-OSSESSIONI :
-pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti, vissuti, in qualche momento nel corso del disturbo come intrusivi o inappropriati e che causano ansia e disagio marcati;
-i pensieri, gli impulsi o le immagini non sono semplicemente eccessive preoccupazioni per i problemi della vita reale;
-la persona tenta di ignorare o di sopprimere tali pensieri , impulsi o immagini, o di neutralizzarli con latri pensieri o azioni;
-la persona riconosce che i pensieri, gli impulsi o le immagini ossessivi sono un prodotto della propria mente.
-COMPULSIONI :
-comportamenti ripetitivi ( per esempio, lavarsi le mani, riordinare, controllare) o azioni mentali ( per esempio, pregare, contare, ripetere parole mentalmente) che la persona si sente obbligata a mettere in atto in risposta ad un’ossessione o secondo regole che devono essere rigidamente applicate;
-i comportamenti o le azioni mentali sono volti a prevenire o ridurre il disagio o a prevenire alcuni eventi o situazioni temuti, comunque questi comportamenti o azioni mentali non sono collegati in modo realistico con ciò che sono designati a neutralizzare o a prevenire, oppure sono chiaramente eccessivi.
(B)
In qualche momento nel corso del disturbo la persona ha riconosciuto che le ossessioni o le compulsioni sono eccessive e irragionevoli.
(C)
Le ossessioni o le compulsioni causano disagio marcato, fanno consumare tempo ( più di un’ora al giorno) o interferiscono significativamente con le normali abitudini della persona, con il funzionamento lavorativo (o scolastico) o con le attività o relazioni sociali usuali.
La persona inoltre inizia ad evitare situazioni che potrebbero causargli disagio e a limitare in questo modo luoghi da frequentare, attività da svolgere insomma, a limitare la sua vita.
Le ossessioni sono” primarie”, nel senso che possono presentarsi anche senza essere accompagnate da compulsioni, che sono quindi definite” secondarie”: circa il 25% dei pazienti ha un disturbo ossessivo puro.
E’ importante capire che da soli è difficile affrontare il problema per cui, è necessario rivolgersi ad uno specialista, uno psicoterapeuta il quale potrà sicuramente aiutare la persona ad uscire da questa sorta di circolo vizioso in cui si trova, senza giudicarlo.
Il suo intervento sarà finalizzato a ricostruire col paziente il significato dei pensieri ossessivi in modo che questi possano ridurre la loro frequenza o scomparire e comunque, essere meno dolorosi.
Per frenare le compulsioni lo psicoterapeuta userà la tecnica che ritiene più adatta a questo fine, anche in base alla sua formazione e specializzazione.
Bisogna innanzitutto lavorare sui sintomi, ma anche andare ad indagare sulla presenza di eventuali recenti perdite, stress e altri eventi che hanno potuto scatenare l’angoscia.
A volte può essere utile capire che è del tutto normale avere pensieri ossessivi e comportamenti ripetitivi, ma solo se questi non risultano essere esagerati.
Alcune ossessioni e compulsioni possono andare incontro a remissione quando la persona che ne è affetta riesce ad esprimere i sentimenti che ha provato nel corso di alcune esperienze difficili, soprattutto il dolore, la rabbia e la delusione che si provano quando si scopre che è possibile controllare ossessioni e compulsioni.

BIBLIOGRAFIA

Andrew Sims, Introduzione alla psicopatologia descrittiva, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2004

Umberto Galimberti, Enciclopedia di Psicologia, Torino, Garzanti, 1999

DSM-V-TR

PDM Manuale diagnostico psicodinamico, Raffaello Cortina editore marzo 2008.

Kaplan Harold I., Sadock Benjamin J., Psichiatria Clinica, Torino Centro Scientifico Editore, 2003

DiDott. Marco Amendola

La fobia sociale

La fobia sociale è un disturbo caratterizzato dalla paura di esporsi o trovarsi in situazioni sociali e di ricevere giudizi negativi dagli altri.
Il soggetto teme di apparire imbarazzato, di essere considerato ansioso, valutando negativamente l’esito delle proprie prestazioni.
Le manifestazioni più diffuse del disturbo sono la paura di stare tra la gente, di mangiare e parlare in pubblico, di arrossire e di scrivere davanti agli altri.
È possibile distinguere due tipi di fobia sociale: semplice, quando la persona teme solo una o poche situazioni; generalizzata, quando invece teme pressoché tutte le situazioni sociali.

Il soggetto teme un deficit delle sue prestazioni, che gli altri possano giudicarlo negativamente e le sue reazioni somatiche.
Infatti l’ansia anticipatoria gli provoca sudorazione intensa, secchezza delle mucose, tachicardia e vampate di calore.
Il soggetto ansioso mette in atto meccanismi di evitamento ad esempio evita luoghi pubblici e di parlare in pubblico.
Tutto ciò provoca un alterazione del suo funzionamento sociale, lavorativo e personale.

Prendiamo il caso di un uomo d’affari che per lavoro debba prendere spesso parola in presenza di altre persone e che sia affetto da questo disturbo, egli molto probabilmente rinuncerà a parlare per evitare imbarazzo ed umiliazione.
Evitare la situazione potrebbe creargli dei problemi in ambito lavorativo e rafforzare la convinzione che le sue prestazioni siano disastrose. Inoltre i soggetti con fobia sociale sono consapevoli dell’irragionevolezza delle loro paure e si rendono conto del fatto che queste siano eccessive.
Altri comportamenti di evitamento sono detti “protettivi” e sono per esempio camminare lentamente, stare seduto senza muoversi, avere le mani in tasca insomma, fare di tutto per “farsi notare” meno possibile.
Forme diffuse del disturbo sono la fobia scolare in età evolutiva e la fobia per gli esami in età giovanile.

Tra gli studenti universitari, è presente un alto tasso di ansia per l’esame che si differenzia dalla normale tensione tipica della situazione d’esame che invece può essere utile perchè rende più produttivi. Spesso pur avendo studiato per l’esame i soggetti non lo sostengono, evitando cosi la situazione che gli provoca ansia.
L’ansia da prestazione è spesso motivo di sofferenza e di abbandono degli studi, del lavoro e degli impegni.
Il soggetto con disturbo d’ansia sociale può spesso evidenziare altri disturbi come conseguenza del cronicizzarsi del problema ansioso. Uno di questi disturbi aggiuntivi può essere un disturbo depressivo, il quale può manifestarsi come conseguenza del perdurante scoraggiamento, della demoralizzazione e, alcune volte, della disperazione.
Un altro disturbo spesso presente è il disturbo di panico che può associarsi alla fobia sociale o, altre volte, essere preesistente.
Un’ulteriore complicanza è data dall’abuso di alcol, sostanze o farmaci: la condotta di abuso può rispondere ai tentativi del soggetto di trovare un rimedio ai sintomi d’ansia. Si pensi ad esempio come, tra i giovani, l’uso di alcol, entro un certo dosaggio, sia diffuso anche per l’effetto facilitante, disinibitore, nelle relazioni sociali.

Solitamente questo disturbo si presenta tra i 15 e i 20 anni.
E’ frequente rilevare tale condizione di disagio dopo molti anni dall’esordio, in quanto il soggetto non chiede un aiuto professionale a causa della natura delle proprie convinzioni ansiose.
Anche quando si rivolge ad uno psicologo o psicoterapeuta, il momento dell’incontro è difficile in quanto la situazione di valutazione rappresenta essa stessa un evento potenzialmente fobico.
Il tempo trascorso in sala d’attesa prima dell’appuntamento, l’incontro con il clinico per la prima volta, il dover parlare del timore e dell’ansia provata nelle interazioni interpersonali possono provocare alti livelli d’ansia nel soggetto.
È importante che egli sappia che lo psicologo lo farà sentire a proprio agio offrendo rassicurazione ed empatia e aiutandolo a superare il disagio che, se non curato, andrebbe sicuramente verso una cronicizzazione.

Bibliografia

Vittorio Cei, Panico e fobie. Le risposte a tutti i dubbi. Franco Angeli, 2002.

Adriano Purgato, Fobie. Le nuove ossessioni del XXI secolo. Castelvecchi, 2006.

American Psychiatric Association, DSM-IV-TR. Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Masson , Milano, 2001.

DiDott. Marco Amendola

I disturbi d’ansia

(Tratto da “Ri-conoscere l’ansia: guida alle cause, sintomi, diagnosi e terapie”, Natoli-Allegrucci, Scione Editore Roma)

 i disturbi d'ansia - Dott. Marco Amendola - Psicologo Napoli

L’ansia può, a ragion veduta, essere definita come “l’inquietante compagna dell’uomo moderno” (…) ed è un fenomeno molto diffuso e presente nella vita quotidiana odierna, soprattutto nella civiltà occidentale.
Essa, in alcuni casi può assumere forme gravi e paralizzanti, in altri forme moderate e costruttive; a volte è presente per lunghi periodi, altre volte per periodi brevi e intervallati; in alcuni casi si manifesta apparentemente senza motivo, in altri insorge a seguito di specifici eventi (esami, separazioni, etc.…) o in particolari momenti di vita (adolescenza, nascita di un figlio, etc…).

Che cos’è l’ansia?

L’ansia può essere definita come una tensione apprensiva, o irrequietezza, che sorge dal sentire come imminente un pericolo, sia pure vago, di origine sconosciuta.
E’ uno stato emotivo molto vicino alla paura, vissuto dal soggetto come una sensazione di penosa aspettativa, senza che vi sia un oggetto reale a provocarla. Il soggetto si sente “teso”, “nervoso”, “eccitato”, “impaurito”. Tale sentimento di preoccupazione/apprensione investe la persona nella sua globalità.

Quando dobbiamo considerarla pericolosa?

(…) Un certo grado di ansia è funzionale, cioè non pericolosa in quanto eccita la nostra curiosità e ci rende intraprendenti, migliora le nostre prestazioni e ci dà tono. (…) E’ utile, cioè, all’uomo perché determina nell’organismo lo stato di allerta e la tensione necessaria a superare un momento difficile, un imprevisto, un ostacolo.
Essa diventa disfunzionale quando quantitativamente supera una “soglia critica”, soggettivamente determinata, e finisce per “bloccare” l’individuo, impedendogli di adattarsi agli eventi della vita, di far fronte agli ostacoli, di sviluppare e mantenere buone relazioni con gli altri non consentendogli di raggiungere un ragionevole benessere psico-fisico-emotivo.

Come si manifesta e quali sono i sintomi che possono aiutarci a ri-conoscerla?

I sistemi classificativi attualmente più diffusi sono quello dell’O.M.S (Organizzazione Mondiale della Sanità), giunto alla decima versione (l’ICD-10 -International Classification Disease-) e quello dell’American Psychiatric Association, nella quarta edizione revisionata (DSM-IV-TR -Diagnostic Statistical MentalDisorders).

Vediamo ora insieme le caratteristiche dei principali disturbi dell’ansia:

1. Il Disturbo d’ansia generalizzata
Il “Disturbo d’ansia generalizzata” é caratterizzato dalla presenza costante e cronica di ansia e di preoccupazioni eccessive per diversi eventi, situazioni, attività o prestazioni. L’ansia è diffusa e persiste nel tempo con accentuazioni o apparenti riduzioni legate agli eventi della vita; ciò può causare un disagio clinico significativo o una vera e propria menomazione del funzionamento sociale, lavorativo o scolastico.

2. I Disturbi fobici
I “Disturbi fobici” sono disturbi in cui l’ansia è provocata da oggetti o situazioni specifiche che abitualmente non sono considerabili oggettivamente pericolose. La persona, per non star male, evita il contatto con l’oggetto e/o la situazione e sviluppa la cosiddetta ansia anticipatoria, fenomeno per cui “al solo pensiero di …” la persona entra in uno stato vero e proprio d’ansia. Uno dei disturbi fobici più comuni è la fobia sociale

3. Il Disturbo da attacchi di panico (DAP)
Il “Disturbo da attacchi di panico”, la cui frequenza nella popolazione generale italiana è del 3%, si presenta sotto forma di episodi di intensa paura o angoscia che arrivano in modo “inaspettato” e “sconvolgente”, in situazioni quotidiane che non sono pericolose e che abitualmente non vengono vissute come minacciose. Un attacco di panico solitamente raggiunge il picco nel giro di 10 minuti e si esaurisce entro la mezz’ora, ma a volte la sua intensità è tale da lasciare la persona stanca e spossata anche per giorni. La persona colpita da un attacco di panico si sente come se le venisse a mancare la terra sotto i piedi, come risucchiata da una voragine, come se stesse per morire, per impazzire o per perdere completamente il controllo di se stesso. A queste sensazioni terrorizzanti si accompagnano numerosi sintomi fisici: difficoltà a respirare, palpitazioni, sudorazione, nausea, dolore al petto e allo stomaco, tremore, sensazione di essere sul punto di svenire, di avere un infarto o un ictus, etc. Può esserci anche la sensazione di avere la testa vuota, le vertigini, un senso di irrealtà o derealizzazione, la voglia di fuggire e così via. Ovviamente non sempre gli attacchi di panico sono caratterizzati da così tanti sintomi e anche la loro durata e intensità può variare molto da persona a persona e da situazione a situazione. Al primo attacco di panico, in genere, fa seguito un periodo di tempo, che può durare mesi, in cui il soggetto vive nella continua preoccupazione che si possano verificare altre crisi (ansia anticipatoria) e questo in genere può portare il soggetto a modificare le proprie abitudini di vita (uscire di meno, evitare di tornare nel luogo dove è insorta la crisi, etc..). Questo tipo di disturbo, che attualmente in Italia colpisce circa 2,5 milioni di persone, è in aumento ed è più frequente nelle donne; può comparire in qualsiasi momento della vita anche se l’esordio si colloca solitamente fra i 15 e i 35 anni con un picco fra i 22 e i 24. Si ha un disturbo da attacchi di panico (DAP) solo se gli attacchi si presentano almeno 4 volte in quattro settimane e quando è presente una specifica condotta di evitamento: avendo paura che l’attacco possa ripetersi, il soggetto cerca di trovarsi in luoghi per lui “sicuri” (abitazione, lavoro,etc.) e quando viene invitato fuori da questo “territorio” è assalito dall’ansia, anche solamente al pensiero di doverlo fare (ansia anticipatoria). In alcuni casi le limitazioni possono diventar pesanti al punto di portare l’individuo a perdere il lavoro e la propria autonomia di vita e se a ciò aggiungiamo l’incomprensione da parte dei familiari, che spesso non capiscono la sofferenza della persona, capiamo il perché molto spesso accanto a questo disturbo possano comparire sintomi depressivi importanti.

4. Il Disturbo ossessivo-compulsivo
Circa il 3% delle persone è affetto da un disturbo ossessivo-compulsivo. Comincia spesso da bambini o da adolescenti e le persone che ne sono colpite tendono a non parlare dei loro disturbi perché se ne vergognano. Esso è caratterizzato dalla presenza di ossessioni e compulsioni.
Le ossessioni sono idee, pensieri o immagini intrusive, ricorrenti e persistenti che entrano ripetutamente nella mente del soggetto, al di là della sua volontà, e lo perseguitano; esistono ossessioni di ordine (preoccupazione che gli oggetti abbiano un determinato ordine, collegamento tra il compiere specifiche azioni e l’esito di eventi futuri, etc..), ossessioni di raccolta e conservazione degli oggetti (attenzione eccessiva per oggetti di scarso valore come biglietti dell’autobus, etc.), ossessioni di aggressività (paura di far male a se stessi o agli altri, paura di non riuscire a controllare i propri impulsi, etc.), ossessioni di contaminazione (preoccupazione eccessiva per la sporcizia, disgusto nei confronti dei rifiuti), ossessioni sessuali (pensieri o immagini perverse, timore di non controllare gli impulsi sessuali, etc.), ossessioni ad altro contenuto (preoccupazione di malattie, per il proprio aspetto, di dimenticare oggetti o appuntamenti, di non dire la cosa giusta).
Le compulsioni, invece, sono comportamenti ripetitivi e stereotipati e, in genere, sono connesse alle ossessioni. Il soggetto compiendo queste azioni ha l’impressione momentanea di poter controllare la paura; in realtà il sollievo è solo momentaneo. La persona riconosce che le ossessioni e le compulsioni sono eccessive e irragionevoli e cerca di resistervi; in questa fase compare l’ansia. Nonostante gli sforzi, infatti, il soggetto si renderà ben presto conto di non riuscire a bloccare tali impulsi e che anzi ogni suo tentativo di reagire sortisce l’effetto contrario, cioè quello di acuire ancor più l’intensità dei sintomi; tale presa di coscienza può far insorgere uno stato depressivo.
Nelle forme più gravi i pensieri e i comportamenti ripetitivi possono durare anche molte ore al giorno causando intenso malessere, notevole perdita di tempo, e compromissione del lavoro e dei rapporti sociali. Il disturbo di solito non regredisce se non viene adeguatamente curato e richiede un intervento abbastanza lungo e costante.

5. Le sindromi somatoformi
Le “Sindromi somatoformi” sono caratterizzate principalmente dalla comparsa ripetuta di sintomi somatici accompagnati da continue richieste di indagini mediche, malgrado ripetuti esiti negativi e rassicurazioni da parte dei medici che i sintomi non hanno una origine organica. Anche quando sono presenti disturbi somatici, essi non sono tali da spiegare la natura e l’estensione dei sintomi o l’angoscia e la preoccupazione eccessiva del paziente. I sintomi possono essere riferiti a qualsiasi parte o sistema del corpo. Tra le sindromi somatoformi una posizione particolare è occupata dall’Ipocondria:

· L’ ipocondria é la paura cronica e persistente di avere una malattia organica grave, basata sulla errata interpretazione di segnali e sensazioni corporee nonostante dalle indagini cliniche e dalle visite mediche non emerga mai nulla di preoccupante. Il soggetto è ipervigile e concentra tutta la sua attenzione sul corpo, coglie i minimi “rumori” (dolorini, pruriti, fitte, etc.) che normalmente provengono da esso, amplificandone l’entità e attribuendo ad essi un’origine maligna. Questo disturbo, che ha la prima insorgenza tra i 20 e i 30 anni, in genere tende a comparire, sparire per poi ripresentarsi, a fasi alterne in relazione agli eventi della vita.

6. Il Disturbo post-traumatico da stress
Il “Disturbo post-traumatico da stress” In questo caso la sintomatologia ansiosa compare a seguito di un evento traumatico di notevole importanza, che non rientra nelle abituali esperienze della persona: eventi che implicano morte o minaccia di morte, o gravi lesioni o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri; tutti episodi a cui si associano paura intensa, sentimenti di impotenza o di orrore. L’aspetto caratteristico è rappresentato dal ricordo continuo e angoscioso dell’evento subito e dai conseguenti tentativi di evitare ogni cosa o situazione che lo ricordi, spesso con ripercussioni negative sui rapporti sociali e sul funzionamento lavorativo. Il solo ricordo scatena sintomi ansiosi intensi accompagnati da picchi di angoscia, il soggetto è costantemente in stato di allerta, è irritabile, ha difficoltà a concentrarsi, etc.
In alcuni casi il soggetto, per difendersi da questa profonda sofferenza, entra in uno stato di anestesia emozionale, in una condizione di distacco dagli altri con perdita degli interessi alle usuali attività, in una condizione in cui le emozioni, sia esse negative che positive, sembrano non “toccarlo” più; se questa condizione persiste può portare il soggetto ad entrare in depressione e ad isolarsi sempre più dalla vita.


7. La sindrome mista ansiosa-depressiva
La “Sindrome mista ansiosa-depressiva” si ha quando i sintomi dell’ansia e della depressione sono contemporaneamente presenti, ma non troppo definiti da permettere una specifica diagnosi. Questa categoria diagnostica dovrebbe essere adottata solo in modo transitorio fino al momento in cui, attraverso un maggior approfondimento, non si riesca ad individuare la vera natura della patologia. Del resto abbiamo già potuto vedere come disturbi depressivi sono presenti in molti disturbi d’ansia e come l’ansia sia a pieno titolo un sintomo della depressione; bisogna pertanto cercare di individuare qual’è la matrice principale dei sintomi e capire se si tratta di un “depresso ansioso” o di un “ansioso depresso”.

9. La reazione acuta da stress
La “Reazione acuta da stress” é un disturbo di rilevante gravità che si sviluppa in un individuo in risposta ad uno stress fisico e/o mentale e che in genere regredisce nel giro di ore o giorni; non é presente alcun altro disturbo mentale manifesto. L’evento stressante può essere una sconvolgente esperienza traumatica, che implica una grave minaccia per la sicurezza o l’integrità fisica del soggetto o di una o più persone a lui care o un cambiamento nella condizione e nella rete sociale dell’individuo.

10. Il concetto di “Comorbilità”
Un aspetto che, in questa sede, merita attenzione è quello di “Comorbilità” dei disturbi psicopatologici, ovvero la possibilità che una stessa persona possa presentare contemporaneamente più disturbi. Su questo argomento esistono diverse opinioni: alcuni clinici affermano che la frequenza della co-presenza di più disturbi nello stesso individuo sia assai alta, altri molto modesta, altri ancora negano tale possibilità affermando che la presenza di un disturbo di per sé escluda la presenza di altri. In realtà ancora non c’è accordo univoco in tal senso anche se l’osservazione clinica, in base ai criteri del DSM-IV, mette in evidenza che casi di comorbilità sono possibili, soprattutto tra attacchi di panico e disturbi fobici con depressione, disturbo ossessivo-compulsivo e disturbo d’ansia generalizzato.

Per ulteriori approfondimenti consultare il testo:
“Ri-cinoscere l’ansia: guida alle cause, sintomi, diagnosi e terapie”
Dott. N. Natoli, Dott.ssa F. Allegrucci
Scione Editore Roma

DiDott. Marco Amendola

I disturbi psicosomatici e le somatizzazioni

Sin dall’antichità si è sempre saputo che sentimenti ed emozioni esercitassero un effetto sul corpo, ma sono stati necessari i progressi della medicina moderna per appurare l’esistenza di meccanismi attraverso i quali l’emozione può dare origine ad una malattia con caratteristiche e modalità di sviluppo proprie.

. Il termine “psicosomatico”(usato per la prima volta nel 1818 da Heinroth), fa riferimento ad una visione olistica dell’uomo, che può essere studiato in modo complementare sia dal punto di vista psicologico che fisiologico.

I disturbi psicosomatici (o somatoformi) sono caratterizzati dalla presenza di sintomi fisici che suggeriscono l’esistenza di un disturbo organico (da qui somatoforme), i cui sintomi però in realtà non sono giustificati né da una condizione medica generale, né dagli effetti diretti di una sostanza e né da un altro disturbo mentale: in pratica non esistono reperti organici che li possano dimostrare o meccanismi fisiologici noti che li possano spiegare, e per i quali esiste l’ipotesi, che siano legati a meccanismi e conflitti psicologici. Si tratta, in effetti, di conflitti dell’individuo, prima col mondo esterno e poi intrapsichici; tali conflitti possono provocare manifestazioni mentali o somatiche, oppure entrambe, in proporzione variabile. Solitamente l’insorgere di tali meccanismi viene attribuita a stress, ad ansia, paura o ad un forte disagio, che attivano ( talvolta in maniera smisurata, come se ci si trovasse sempre in situazioni di emergenza) il sistema nervoso autonomo, il quale a sua volta risponde con reazioni vegetative che causano problemi fisici. Queste risposte del sistema nervoso autonomo sono parte della reazione di controllo/fuga. A volte i sintomi somatici sono di tipo delirante:”Sto soffocando, non riesco a respirare. Tutte queste persone che mi respirano attorno, mi tolgono l’aria”.

I disturbi di somatizzazione possono comportare la compromissione di più apparati; possono presentarsi, quindi:

-disturbi dell’apparato gastrointestinale: quali nausea, meteorismo, vomito, diarrea, colite, ulcera, gastrite, intolleranza a cibi diversi;

-disturbi dell’apparato cardiocircolatorio: quali aritmia, ipertensione, tachicardia;

-disturbi dell’apparato urogenitale: quali dolori e/o irregolarità mestruali, disfunzioni dell’erezione e/o dell’eiaculazione, anorgasmia, enuresi;

-disturbi dell’apparato muscolare: quali cefalea, crampi, torcicollo, mialgia, artrite;

-disturbi della pelle:quali acne, psoriasi, dermatite, prurito, orticaria, secchezza cutanea e delle mucose, sudorazione eccessiva;

-disturbi pseudo-neurologici: quali sintomi da conversione come alterazioni della coordinazione e/o dell’equilibrio, paralisi o ipostenie localizzate, difficoltà a deglutire, afonia, cecità, sordità, diplopia, amnesie;

-disturbi del comportamento alimentare: quali anoressia, bulimia, binge eating.

Affinché si possa parlare di disturbo di somatizzazione, deve essere presente una storia di molteplici lamentele fisiche, cominciata prima dei 30 anni, che portano ad una continua ed estenuante ricerca di trattamento, e talvolta anche di continui interventi chirurgici, ad un punto tale da poter causare significative menomazioni nel funzionamento sociale, lavorativo, o in altre importanti aree della vita della persona. Devono inoltre essere soddisfatti i seguenti criteri:

-quattro sintomi dolorosi: una storia di dolore riferita ad almeno quattro localizzazioni o funzioni (ad esempio, dolore alla testa, all’addome, dolori mestruali, dolori nel rapporto sessuale o durante la minzione);

-due sintomi gastrointestinali: una storia di almeno due sintomi gastrointestinali in aggiunta al dolore;

-un sintomo sessuale: una storia di almeno un sintomo sessuale o riproduttivo in aggiunta al dolore;

-un sintomo pseudo-neurologico: una storia di almeno un sintomo o deficit che fa pensare ad una condizione neurologica non limitata al dolore.

Nel caso in cui ci fosse una condizione medica generale collegata ai sintomi, le lamentele fisiche o la menomazione sociale e lavorativa conseguente sono sproporzionate rispetto a quanto potremmo aspettarci dalla storia, dall’esame fisico o dai reperti di laboratorio. I sintomi però non sono prodotti in maniera intenzionale né sono simulati.

Tra i disturbi psicosomatici troviamo anche:

-il” Disturbo somatoforme indifferenziato”, caratterizzato da una o più lamentele fisiche( per esempio, stanchezza, perdita di appetito, problemi gastrointestinali o urinari), la cui durata è di almeno 6 mesi;

-il “Disturbo di conversione”,caratterizzato da uno o più sintomi o deficit riguardanti funzioni motorie volontarie o sensitive, che suggeriscono una condizione medica generale; si ritiene che qualche fattore psicologico sia associato col sintomo o col deficit, in quanto l’esordio o l’esacerbazione del sintomo o del deficit è preceduto da qualche conflitto o da un altro tipo di fattore stressante. E’possibile codificare il disturbo in base al tipo di sintomo o deficit presenti; per cui si distinguono: Disturbo di conversione con sintomi o deficit motori, Disturbo di conversione con attacchi epilettiformi o convulsioni, Disturbo di conversione con sintomi o deficit sensitivi ed infine Disturbo di conversione con sintomatologia mista, in cui, sono presenti sintomi di più categorie.

Dal punto di vista psicoanalitico, il “Disturbo di conversione”(che viene considerato la più drammatica delle condizioni somatoformi) viene spiegato come rappresentazione simbolica di un conflitto inconscio; ad esempio, un conflitto relativo al vedere qualcosa potrebbe essere espresso attraverso la cecità, o ancora, un impulso sessuale o aggressivo proibito potrebbe essere espresso attraverso una paralisi fisica. Tuttavia, i pazienti con sintomi di conversione mostrano una certa indifferenza verso i loro sintomi, una certa noncuranza emotiva rispetto alla gravità di condizioni disabilitanti, quali, appunto, la paralisi o la cecità. Non è chiaro però, se tale”indifferenza” sia dovuta all’incapacità di esprimere con parole le proprie esperienze affettive o ad una dissociazione post-traumatica di affetti che potrebbero essere espressi ma sono sentiti come troppo dolorosi per poterli integrare nell’esperienza complessiva della propria vita mentale.

Riprendendo il discorso sui Disturbi psicosomatici, abbiamo ancora:

– il “Disturbo algico”, caratterizzato dalla presenza di dolore in uno o più distretti somatici ed è di intensità tale da giustificare l’attenzione clinica; si ritiene che qualche fattore psicologico abbia un ruolo importante nell’esordio, nella gravità, esacerbazione e mantenimento del dolore. Anche in questo caso occorre specificare il tipo, e cioè “Disturbo algico associato a fattori psicologici”e “Disturbo algico associato a fattori psicologici e ad una condizione medica generale”; bisogna poi specificare se è acuto,con durata inferiore ai 6 mesi, o cronico,con durata superiore ai 6 mesi.

– l’ “Ipocondria” caratterizzata dalla preoccupazione di avere, o di poter avere, una malattia grave, basata sull’erronea ed indebita interpretazione dei sintomi somatici da parte del soggetto. Si tratta infatti di un sintomo, non di una malattia; tali sintomi possono essere espressi in vari modi: possono essere presenti dolori e disagio minimi che tengono comunque occupata l’attenzione del paziente, possono essere presenti paure irragionevoli circa la possibilità di sviluppare malattie gravi, sentendo così la necessità di prendere precauzioni eccessive, oppure ancora, segni benigni possono essere interpretati come dotati di un significato patologico. Queste espressioni di disagio possono manifestarsi in modo indipendente o insieme. I sintomi ipocondriaci sono molto comuni, specie in una società come la nostra , afflitta da nuove e sempre più numerose malattie, alcune delle quali ancora oggi incurabili, che spaventano le persone; tuttavia tali sintomi sono perlopiù transitori. Solo una piccola parte arriva all’attenzione e quindi alla valutazione medica, le quali però non bastano a rassicurare, a placare la preoccupazione del paziente. La durata del disturbo deve essere di almeno 6 mesi. La differenza tra l’ipocondria e il disturbo di somatizzazione, è che nel primo caso il paziente si preoccupa dei suoi sintomi, del loro significato e della possibilità di essere gravemente malato, mentre il paziente con disturbo di somatizzazione lamenta sintomi fisici multipli, diversi e ricorrenti in vari distretti corporei.

-il “Disturbo da dimorfismo corporeo”, caratterizzato dalla presenza di preoccupazione per un supposto difetto fisico: se è presente una piccola anomalia, l’importanza che la persona le dà è eccessiva.

-“Pseudociesi”: caratterizzato dalla falsa convinzione di essere incinta, associata a segni obiettivi di gravidanza, quali rigonfiamento addominale, flusso mestruale ridotto o amenorrea, sensazione soggettiva del movimento fetale, nausea, tensione e secrezione mammaria, doglie. Ad esempio, una donna di 45 anni era convinta di essere incinta. Aveva avuto alcuni mesi di amenorrea e lamentava nausea, fatica e tensione al seno. Esami ripetuti avevano portato ad una diagnosi di amenorrea da menopausa, ma lei rifiutava questa diagnosi e tornava ripetutamente dal medico. Voleva a tutti i costi “dare un nipotino a sua madre” prima che quest’ultima morisse.

Come già detto in precedenza, tutti i disturbi psicosomatici causano disagio clinicamente significativo o menomazione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre importanti aree della vita della persona; non sono inoltre giustificate da una condizione medica generale, dall’uso di sostanze o da un altro disturbo mentale.

Il fatto che i pazienti che presentano disturbi psicosomatici siano spesso attratti da gruppi politici, di auto-aiuto o di sostegno, fa pensare che siano scettici verso la comunità scientifica, nel senso che non credono che i medici possano davvero prenderli in considerazione. E in effetti questa loro percezione è per certi versi corretta. Alcuni pazienti somatizzanti sembra che usino i sintomi fisici per mettersi in relazione con i medici, e spesso i medici giungono a questa conclusione quando si rendono conto che la risoluzione di uno di questi problemi è subito dopo accompagnata dalla comparsa di un altro. Invece, altri pazienti che presentano sintomi gravi e resistenti possono essere presi per persone che utilizzano la loro patologia solo per assicurarsi qualche forma di relazione, mentre invece il medico ha semplicemente sbagliato la diagnosi. In ogni caso, la sofferenza fisica del paziente viene spesso sminuita dal personale medico che si sente impotente, frustrato ed irritato per l’incapacità di curare questi pazienti e perfino di localizzare il problema; così, quando i pazienti con disturbi psicosomatici richiedono una psicoterapia spesso pensano che il terapeuta è un’altra figura che non li ascolterà, né si prenderà realmente cura di loro. Un elemento molto importante di cui bisogna tener conto nella valutazione della malattia psicosomatica, è il tornaconto secondario della malattia stessa: ci sono cioè pazienti che credono che l’unico modo per appagare il proprio bisogno di dipendenza sia quello di assumere il ruolo della persona malata…è questo il caso soprattutto di persone anziane, sole o insicure. Le motivazioni connesse al tornaconto secondario sono quasi sempre inconsce. Anche in questo caso, quando i medici non riescono a fare una diagnosi o non riescono ad aiutarli, questi pazienti vengono accusati di rimanere malati per ottenere un tornaconto secondario della loro condizione. E’per questo e per gli altri motivi su esposti che i pattern relazionali dei malati psicosomatici con i medici, in particolare, tendono a variare da una intensa, persistente e aggressiva ricerca di rassicurazione (destinata inevitabilmente al fallimento) a lontananza e inaccessibilità.

In definitiva, si può affermare che il soggetto psicosomatico presenta un’insufficienza, costituzionale o acquisita, dei processi di mentalizzazione, cioè di elaborazione psichica dell’emozione attraverso il pensiero, e un’accentuazione del pensiero operativo, sempre aderente alla realtà concreta e incapace di vita fantastica. L’incapacità di mentalizzazione può dipendere sia dal soggetto stesso che non l’ha maturata durante l’infanzia, sia dalla relazione con la madre.

Per concludere con una nota terapeutica, il trattamento di questi pazienti prevede una comprensione profonda della personalità del malato in situazione, per poter pianificare un intervento personalizzato ed eliminare, o quanto meno, indebolire i processi che sostengono il disturbo: infatti il modo più efficace per cambiare i sintomi è modificare i modelli che li sostengono. Sono stati messi a punto vari trattamenti, ma fondamentale, in ogni caso, risulta essere l’ “alleanza terapeutica” la cui essenza è rappresentata dalla motivazione del paziente a vincere la sua malattia, la sua infelicità e a collaborare con il terapeuta, seguendo le sue spiegazioni e le sue intuizioni. Nell’ipnoterapia il paziente viene ipnotizzato e vengono individuate ed esplorate le tematiche psicologiche con valore eziologico. La terapia comportamentale è efficace solo con alcuni pazienti. Secondo l’approccio sistemico relazionale, la terapia familiare consente di modificare non solo il soggetto, ma l’intero sistema funzionale della famiglia. Secondo l’approccio cognitivo, è di primaria importanza il cambiamento delle forme di conoscenza che sono alla base dei sintomi; a questo proposito è necessario individuare quali pensieri e significati siano dietro il sintomo, come sono mantenuti dall’ambiente di vita e come è possibile ottenere una loro riorganizzazione e un loro cambiamento: esempi comuni sono il management cognitivo dello stress, gli esercizi di training e tutto ciò che riguarda le tecniche di rilassamento.

BIBLIOGRAFIA

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 Andrew Sims, Introduzione alla psicopatologia descrittiva, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2004

-Umberto Galimberti, Enciclopedia di Psicologia, Torino, Garzanti, 1999

-DSM-V-TRAmerican Psychiatric Association (2001), DSM-IV-TRManuale Diagnostico e

Statistico dei disturbi mentali, Masson , Milano.

– PDM Manuale diagnostico psicodinamico, Raffaello Cortina editore marzo 2008.

-Kaplan Harold I., Sadock Benjamin J., Psichiatria Clinica, Torino Centro Scientifico Editore, 2003